Ad est del Togo si trova la repubblica del Benin, una ex colonia francese che, dopo vari colpi di stato, ha ritrovato nel 1960 una parvenza di democrazia. Passando il confine non notiamo particolari differenze; i villaggi, la gente, le strade sono gli stessi. Un confine politico ma non etnico o culturale come spesso accade.

Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola.
(Khalil Gibran)

Cotonu

Entrando in Benin raggiungiamo il fiume Momo, frontiera naturale tra Togo e Benin prima della divisione politica e facciamo sosta a Cotonu una città caotica e trafficatissima, cuore economico del Benin. Ci vuole parecchio tempo per attraversare la moltitudine di motorini che la intasano, una vera marea che si sposta portando migliaia di persone, spesso quattro o cinque su un motorino, e anche enormi balle di merci che sfidano la forza di gravità. La città non ha granchè di interessante da vedere, ma nei suoi dintorni sorgono villaggi di palafitte unici al mondo.

Il villaggio di Ganviè

Raggiungiamo un pontile alla periferia della città da dove partiremo con una barca per raggiungerne uno di questi villaggi, il villaggio di Ganviè, abitato dall’etnia dei Tofinou. A fianco del pontile c’è l’affollatissimo mercato dove le donne del villaggio vengono a vendere le loro merci. In acqua numerose piroghe vanno e vengono per portare persone e merci dal villaggio al mercato. Saliamo su una di queste piroghe e avanziamo lentamente tra erbe lacustri e canneti dove vengono stese le reti per la pesca. Piano piano ci avviciniamo al villaggio dove i Tofinou vivono dal XVII secolo in palaffitte costruite su pali di tek con tetti che un tempo erano di paglia e ora, miracoli del progresso, sono per lo più di lamiera.

Ogni casa è separata dalle altre per cui ci si sposta solo con le piroghe ovunque si voglia andare: moschea, scuola, negozi o altre abitazioni. Ne incrociamo molte con pescatori, donne che vanno al mercato, ma anche con bambini che imparano a portarle fin dalla tenera età come succede ai nostri bambini con la bicicletta. Giriamo un po’ tra i canali del villaggio, tra le case colorate e tutto quello che può servire per la vita quotidiana. Si ha l’impressione che qui la vita scorra lenta come lento è il movimento delle piroghe sull’acqua

Ouidah

Tornati sulla terraferma ci reimmergiamo nel caos del traffico per raggiungere l’antica capitale Ouidah, uno dei centri mondiali più importanti del vudù e uno dei luoghi dove ancora si mantiene il ricordo indelebile della tratta degli schiavi.

La strada degli schiavi

Arrivati in città ci immergiamo ancora una volta nella storia tragica di questa zona. Qui non si è dimenticato quel passato lontano, ma si è mantenuto vivo il ricordo soprattutto in un percorso detto  “strada degli schiavi” che ripercorre il tragitto che migliaia di uomini e donne hanno fatto  come in una sorta di via crucis. Ripercorrere le tappe che gli schiavi facevano sentendo il racconto di quello che accadeva è veramente angosciante e ad un certo punto mi fa persino vergognare di essere europea.  La prima tappa è Place Chacha dove si teneva il mercato degli schiavi. Uomini e donne venivano condotti sotto il grande albero dove  avveniva l’asta e gli acquirenti, europei e del continente americano, cercavano di acquistare coloro che ritenevano essere i migliori per l’uso che ne avrebbero fatto. Sulla piazza si affacciava il palazzo di Don Francisco De Souza, il più famoso mercante di schiavi che arrivò dal Brasile in cerca di fortuna e in pochi anni divenne il più importante mercante di schiavi di tutta l’Africa Occidentale.

Dopo essere stati acquistati gli schiavi venivano marchiati a fuoco e condotti all’Albero dell’Oblio. Questo albero in realtà non c’è più, ma al suo posto si trova una statua che ricorda il luogo dove gli schiavi venivano portati per far dimenticare loro origini e storia. Gli veniva  fatto credere che l’albero avesse il potere di cancellare la loro memoria e togliere loro lo spirito. La tragica cerimonia consisteva nel girare in senso orario attorno all’albero, nove volte gli uomini e sette volte le donne.

Poi venivano rinchiusi in grandi stanze buie per alcune settimane per indebolirli e disorientarli. Molti schiavi morivano  prima di essere condotti a bordo delle navi e i loro corpi gettati in una fossa comune dove ora sorge un monumento commemorativo, il Memoriale della Memoria, chiamato anche il Muro dei Lamenti perché a volte venivano messi nella fossa persone ancora vive. La guida ci racconta che i sopravvissuti venivano portati sulla spiaggia, dove ora sorge la Porta del Non Ritorno, e da li venivano caricati sulle scialuppe che li avrebbero portati alle navi. Si calcola che 15 milioni di schiavi sono arrivati nelle Americhe, ma se si contano quelli morti prima di imbarcarsi e durante la navigazione si arriva a 30 milioni di individui. Una strage di cui noi europei dovremmo ricordarci quando oggi respingiamo le popolazioni che fuggono dall’Africa. Ma noi abbiamo dimenticato, loro no!

“Finché l’uomo sfrutterà l’uomo finché l’umanità sarà divisa in padroni e servi , non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.” PierPaolo Pasolini

Il tempio del Dio Pitone

Tra i riti di questa terra c’è sicuramente il culto del Dio Pitone ancora tenuto in grande considerazione nonostante la vangelizzazione cattolica che qui a Ouidah costruì di fronte al Tempio del Pitone la prima cattedrale cattolica costruita nell’Africa Occidentale. Quando i missionari arrivarono qui “contrattarono” con i re locali e i “preti” vudù per costruirla  pensando forse di far abbandonare alla gente il culto del Pitone. Chi avrà vinto? La nostra guida ci dice che la maggior parte della popolazione va prima in chiesa e poi partecipa e segue i riti vudù legati al culto del Pitone. Un buon compromesso?

Entriamo nel tempio dove nel cortile si trova un feticcio a cui vengono fatti sacrifici prima di entrare nella stanza del tempio vero e proprio dove sono ospitati decine di pitoni. I Pitoni Reali sono considerati sacri e rappresentano il dio Dangbe, uno degli spiriti più potenti del vudù, che porta vita e fertilità; ci spiegano che i serpenti stanno all’interno dell’edificio del tempio e delle sue mura, ma la notte, quando le porte del tempio vengono lasciate aperte, li si può trovare che vagano per la città alla ricerca di cibo; coloro che li trovano li riportano al tempio la mattina seguente. Un  sacerdote del culto, che ha sul viso scarnificazioni profonde, ci permette di entrare e insiste per metterci al collo un pitone. Ne farei volentieri a meno, ma non vorrei inimicarmi il dio Pitone!

Verso nord

Risalendo verso nord raggiungiamo Abomey, la capitale di quello che fu il potente regno del Dahomey che sopravvisse fino ai primi del 900. Durante gli anni del potere si sono succeduti 12 re e ognuno di essi ha costruito un palazzo reale all’interno di mura rosse che li comprendono tutti. Facciamo una visita al Palazzo, ne ammiriamo i bassorilievi rimasti, le tombe sei sovrani e il piccolo museo, poi ripartiamo per raggiungere Dassa dove potremo assistere alla festa delle maschere Egun.

Le maschere Egun

Come ho già detto il vudù è un culto animista, nel quale gli spiriti e la natura, quindi le foreste, gli alberi, i fiumi, sono ritenuti sacri. Questo culto si esprime anche attraverso maschere colorate, caratterizzate da canti e danze tramite le quali gli spiriti comunicano con la gente, portandola in uno stato di trance. Al centro di queste feste ci sono le maschere, ognuna delle quali svolge funzioni sociali e simboliche.

In particolare le maschere Egun sono la reincarnazione dei defunti e queste feste servono a mettere in comunicazione il mondo dei morti con quello dei vivi. Quando arriviamo al villaggio la festa sta per iniziare. La gente ci accoglie volentieri e ci riserva un posto attorno alla piazza dove si svolgerà la cerimonia. I tamburi iniziano a cadenzare la musica e all’improvviso arrivano le maschere che corrono qua e là nella piazza per spaventare le persone. Sono coloratissime e ricoperte completamente da pezzi di stoffa colorati. Sono bellissime e tutte diverse. Ne arriva una, corre, crea un fuggi fuggi e poi ne arriva un’altra in un continuo apparire e sparire. La gente cerca di avvicinarsi, ma appena la maschera comincia a correre verso di loro scappa urlando. La guida ci ha seriamente raccomandato di non farci toccare dalle maschere perché potrebbero provocare la morte  (ha detto veramente così!!) e sembra crederci molto perché ogni volta che ci avviciniamo troppo ci fa allontanare preoccupatissimo. E’ tutto strano e incredibile, ma veramente affascinante!

In un’altra zona del villaggio altre maschere, le maschere Zagbeto, fanno la loro apparizione, sono i soldati della notte che proteggono il villaggio, gli spiriti non umani che hanno abitato la terra prima ancora dell’uomo e quindi la gente non fugge da loro, ma le vive positivamente e allegramente. Qui è pieno di bambini che ballano al suono dei tamburi. Le maschere sono interamente ricoperte di paglia colorata fino ai piedi. Ballano roteando al suono dei tamburi in un’atmosfera di festa e di allegria. Ancora una volta ce ne andiamo con l’impressione di non poter catalogare quello che abbiamo visto semplicemente come credenza popolare, nell’aria si respirava qualcosa d’altro, di più profondo e intenso che io, sempre così razionale, non so spiegare.

Il feticcio di Dankoli

Proseguendo verso nord raggiungiamo un importante luogo di culto vudù dove la gente viene a pregare per ottenere intercessioni riguardanti la vita di tutti i giorni. Feticci e santuari abbondano lungo le strade del Benin, ma nessuno è famoso e potente come il feticcio Dankoli e perciò questo è un luogo di pellegrinaggio molto frequentato. Quando arriviamo nella radura ci aspettavamo un tempio, una struttura, mentre in realtà si tratta di un albero di roko che la gente crede che sia dotato di poteri soprannaturali e lo considera sacro. Si dice che sia potente perchè  i seguaci vudù che si recano qui possono comunicare direttamente con gli dei senza l’aiuto dei feticheur. Il feticcio, anzi i feticci, uno maschio e uno femmina, sono dei tumuli di terra che sorreggono innumerevoli paletti di legno ricoperti con grasso, sangue, olio di palma, piume di gallina, uova e ossa in putrefazione e sono appoggiati a due alberi sacri.

Mentre siamo lì arriva una famiglia con un pollo vivo, salgono sul cumulo a piedi nudi e conficcano un piolo di legno nel tumulo mentre recitano preghiere e  fanno le loro richieste alle divinità, poi  versano sopra il paletto dell’olio di palma e  una specie di liquore. Ci spiegano che se otterranno quello che hanno chiesto dovranno tornare e sacrificare l’ignaro pollo versando il suo sangue sul feticcio. Più la richiesta è grande più l’offerta deve essere grande.

Il villaggio dei Taneka

Riprendiamo la strada che sale ancora verso nord attraversando villaggi tutti simili tra di loro: case di terra, tetti di paglia o alluminio e mercati. La strada è sempre più scassata e comincia ad inerpicarsi sui monti dove la vegetazione è sempre più scarsa. Attorno è tutto molto secco e la terra è sempre più rossa e arida.

Imbocchiamo una strada sterrata, lasciamo la macchina e saliamo a piedi lungo un sentiero sassoso  che ci porta ad uno dei villaggi dei Taneka, etnia che ha costruito i villaggi sulle pendici dei monti per fuggire ai negrieri nel periodo della tratta degli schiavi. Il villaggio è un insieme di capanne di forma circolare con il tetto conico di paglia. Questo villaggio è particolare perché è abitato dai sacerdoti dei feticci.

Se volete saperne di più su questo popolo magico delle montagne vi lascio un articolo di “Africa Benin Turismo responsabile”

Entriamo nel cortile di una delle capanne dove incontriamo uno dei sacerdoti. E’ vestito di pelli di capra e sta fumando una lunga pipa. Attorno donne e bambini.  Nel villaggio ne abitano alcuni e ognuno è anche ministro di qualcosa, cioè decide e consiglia su un argomento. Camminiamo nei vicoli del villaggio fino alla capanna centrale più grande delle altre dove incontriamo il re, ogni villaggio ne ha uno,  vestito di bianco con in mano il bastone del potere. E’ un uomo imponente e maestoso, ci saluta e ci da’ il benvenuto. Salutato il re ci incamminiamo verso l’uscita del vllaggio dove incontriamo un altro sacerdote, ministro della salute (non si direbbe visto che è pelle e ossa!). Ce ne andiamo circondati da un nugolo di bambini .

Come spesso è capitato in questo viaggio ci sentiamo un po’ fuori dal tempo e dal mondo, ma più ricchi di emozioni e conoscenza .

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi , vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è.” Marcel Proust

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