Il modo in cui la cronaca giornalistica affronta la violenza di genere è un problema reale ed è arrivato il momento di affrontarlo

Il 25 Novembre è la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dalle Nazioni Unite nel 1999 e celebrata in tutto il mondo con numerose iniziative.
Il simbolo che contraddistingue il 25 Novembre è il rosso ispirato da un’installazione dell’artista messicana Elina ChauvetZapatos Rojos, realizzata nel 2009 e ispirata all’omicidio della sorella per mano del marito e alle centinaia di donne rapite, stuprate e assassinate in una città di frontiera a nord del Messico, nodo del mercato della droga e degli esseri umani.

Mostre, convegni, amministrazioni comunali che installano panchine rosse e si impegnano a combattere la violenza sulle donne, Centri Antiviolenza che fanno quello che possono con finanziamenti sempre più esigui, cortei, striscioni e installazioni d’arte.
Pensiate basti?
Io penso proprio di no.

Nella occidentalissima e civilissima Italia, su 41.799 delitti commessi nel 2019, le donne sono coinvolte nell’81% dei casi riconducibili ai cosiddetti reati spia (maltrattamenti, atti persecutori, violenze sessuali – fonte Ministero dell’Interno, qui il dettaglio).

Eppure i delitti più efferati vengono ancora raccontati dai media tradizionali come “raptus”, gesti di un “folle” che fino al minuto prima era il vicino tranquillo che salutava tutti.
E questo non può più essere normale.

Interessanti sono i risultati a cui è giunto l’Osservatorio di Ricerca sul Femminicidio che coinvolge 5 unità di ricerca sul territorio nazionale, da nord a sud: Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, il Dipartimento di Culture, Politica e Società – Università degli Studi di Torino, il Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo – Università del Salento, il Dipartimento di Cultura e Società – Università degli Studi di Palermo, il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata – Università degli Studi di Padova.

L’Osservatorio ha come obiettivo l’analisi e il monitoraggio della rappresentazione sociale della violenza sulle donne e fondamentale per la nostra trattazione è la raccolta degli articoli di cronaca giornalistica nei casi di femminicidio (la trovate qui).

Emerge con chiarezza non solo il legame tra il peso della notizia e la relazione con la vittima (se si parla di partner o ex-partner la cronaca è più notiziabile) ma soprattutto cresce l’uso di parole legate all’idea di amore. Il vincolo che lega l’assassino alla vittima rappresenta il contesto principale per spiegare o giustificare la violenza, sminuendone la drammaticità e la ferocia.
Esemplari sono poi le foto che corredano gli articoli: foto prese dai social in cui assassino e vittima si baciano o sorridono o comunque sono insieme.
Le parole chiave rimangono abbandono, gelosia, vendetta: si perpetua consapevolmente (e impunemente, ndr) l’immagine dell’amore malato.

Una volta assodati per le donne i diritti universalmente riconosciuti (in alcune parti del mondo non è ancora così, in alcune parti del mondo le donne non possono decidere della propria vita e della propria libertà), facciamo un passo in avanti. Sforziamoci di continuare ad evolverci per essere cittadini migliori. Persone migliori.

Combattiamo la violenza sulle donne anche attraverso il linguaggio che utilizziamo.
Impariamo a farci caso.
Perchè “le parole creano mondi” e plasmare il nostro linguaggio aiuterà a plasmare anche il nostro pensiero.

Vi propongo per l’occasione una carrellata di titoli di giornale che utilizzano un linguaggio che dopo l’installazione di centinaia di panchine rosse e convegni e Giornate Internazionali non è più accettabile.
Titoli a cui non facciamo caso, che ci scorrono sotto il naso tra un cappuccino e un’insalata al bar ma che definiscono il modo in cui decodifichiamo ciò che accade intorno a noi.

“Lo aveva lasciato”. Il killer è un uomo ferito.
Qui il killer era un uomo disperato, il gesto causato da un’evidente disagio.

Nelle didascalie vi ho lasciato già qualche indizio ma questi sono solo alcuni titoli raccolti negli ultimi due mesi.
Solo tra Settembre e Ottobre 2021 infatti si sono consumati tanti (sempre troppi) femminicidi, spesso purtroppo raccontati con pietismo e dal punto di vista dell’assassino.

Perchè è questo il punto: assumere il punto di vista dell’assassino significa empatizzare con lui, capire le sue ragioni, cercare di comprendere cosa lo ha portato a commettere un omicidio a sangue freddo.

Davvero volete empatizzare con chi uccide la propria moglie, la propria compagna o la propria figlia perché ha perso il lavoro? Perché si è sentito dire no dalla donna che invece avrebbe dovuto essere incondizionatamente sua?

“Pista passionale”: nell’articolo si fa riferimento al fatto che la donna aveva rifiutato il killer e che in seguito era stata vittima di un tentativo di stupro.

Forse non basta ripeterlo.
Forse non basta scriverlo.
Forse bisogna cambiare il paradigma con cui ci approcciamo alla violenza, con cui la raccontiamo, con cui assumiamo che faccia parte di una relazione difficile, turbolenta.
Ma una relazione turbolenta non finisce con una donna che muore.
Un operaio che perde il posto di lavoro non uccide la propria moglie perché è disperato.
Un uomo rifiutato non massacra la propria vicina che ha osato dire di no.
Queste dinamiche si innescano quando la donna è vista come una proprietà inserita in una relazione ancillare, al servizio dell’uomo disperato, tradito, in difficoltà.

E mentre noi donne stiamo raggiungendo una consapevolezza che va oltre i diritti civili ormai riconosciuti, perché non chiediamo anche ai nostri uomini, ai nostri compagni di ribellarsi ai racconti in cui vengono dipinti in balìa della loro rabbia, della loro disperazione? Non pensate che si sentano umiliati dall’essere raccontati come uomini che uccidono perché hanno ricevuto un no?

Proviamo a combattere insieme questa battaglia, uomini e donne, fianco a fianco.

L’argomento di questo articolo è stato prima e meglio affrontato da Michela Murgia. Trovate le storie in evidenza sul suo profilo Instagram @michimurgia. Da seguire sempre su Instagram il profilo @ladonnaacaso che si occupa di mettere in evidenza come i cognomi delle donne o i nomignoli servano a deprofessionalizzare la figura della donna, a rimetterla al suo posto: quello della mamma, della moglie, della compagna e non dell’ingegnera, della fisica, dell’astronauta, della ricercatrice.

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34 thoughts on “25 Novembre e violenza sulle donne: perché non basta”

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