Parte III

Con questo intervento si definisce il trittico di interventi relativi alle figure assistenziali che orbitano attorno al mondo delle fragilità. 

E’ stato scritto delle figure degli assistenti sociali e dei caregivers. Oggi, nel mese convenzionalmente dedicato alle donne, desideriamo soffermarci su quanto il lavoro di cura impatti sulle scelte femminili.

In Italia, le donne rappresentano circa il 71% dei caregiver familiari. Esse contribuiscono quotidianamente e in via principale al mantenimento psico-fisico dei propri genitori (67,2%), coniugi o compagni (7,5%), figli e figlie (18,8%), sottraendo tempo alle proprie attività per fornire assistenza e cure alle persone non autosufficienti, rinunciando anche a ruoli e posizioni lavorative di rilievo (Istat).

La gestione del carico di cura, di per sé resa più complessa dalle contingenti necessità sanitarie, si è andata a sommare alla gestione dei tempi lavorativi, rendendo particolarmente difficile conciliare la vita privata (e le responsabilità di cura ad essa connesse) con quella lavorativa. Nel 2020, 1 donna su 4 (26%) aveva un impiego part-time a causa della necessità di svolgere lavoro di cura, mentre questa condizione riguardava solo il 6% degli uomini. Nel 2021, invece, quasi 1 donna su 3 ha dichiarato di non avere un’occupazione a causa delle responsabilità di cura contro il 9% degli uomini. In più, 6 donne occupate su 10 hanno subito qualche tipo di cambiamento nel proprio impiego a causa delle responsabilità di cura dei figli.

Alla luce anche di questi dati, è facile vedere come le caratteristiche dell’occupazione femminile, condizionate da responsabilità di assistenza informale, determinino una parte consistente del divario occupazionale e retributivo di genere che, oramai, non pare più colmabile -almeno con gli strumenti oggi a disposizione (es. legge 104, ‘opzione donna’ nella versione  dell’ultima Manovra 2024 …).

Il lavoro di cura è un lavoro

Il lavoro di cura è un lavoro vero e proprio -innegabile-: tuttavia, benchè svolto con amore nei confronti di un proprio familiare (restringiamo qui l’ambito ai caregiver non professionali), l’impegno profuso nella gestione delle fragilità spesso si rivela invisibile  alle autorità, agli enti e, non ultimo, alla burocrazia.

Chi lavora e ha responsabilità di cura verso persone anziane o non autosufficienti spesso fatica a mantenere una piena occupazione. Ecco perché le imprese dovrebbero sempre più includere nei piani di welfare prestazioni legate all’invecchiamento e assumere figure professionali competenti in questo ambito.

Serve quindi un cambiamento culturale profondo (ma urgente) che garantisca un servizio di accompagnamento personalizzato partendo dall’inquadramento dei bisogni della lavoratrice e dei suoi familiari e facilitando il contatto con i servizi socio-assistenziali pubblici e privati del territorio che risultino più adatti a seconda delle singole circostanze. Un ultimo profilo di indagine è quello relativo alla carenza sistematica di assistenti sociali in Italia. L’ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha diffuso un report che ha analizzato il raggiungimento dell’obiettivo, stabilito nella Legge di Bilancio 2021, di avere un rapporto pari a 1 assistente sociale ogni 5.000 residenti. L’UPB ha fotografato una situazione molto disomogenea in cui emerge una conclusione non sorprendente: mancano 3.216 assistenti sociali per raggiungere dappertutto questo livello essenziale, nonostante siano state stanziate risorse economiche che  sarebbero sufficienti a coprire le lacune. Non è quindi un problema di risorse o di dicotomia nord-sud. Questo fenomeno potrebbe, almeno in parte, essere dettato anche dal fatto che culturalmente la figura dell’assistente sociale è abbinata a quella di una donna.Ebbene, per una moltitudine di fattori (es. la scomodità dei territori, la indisponibilità di trasferimento da altre Regioni o le forme contrattuali), le assistenti sociali, beneficiando di un mercato del lavoro piuttosto dinamico in questo settore, optano per posti di lavoro meglio retribuiti e/o situati in località più appetibili (per questioni di vicinanza, facilità negli spostamenti, presenza di altre opportunità, ecc.).

Ancora una volta, dunque, la condizione femminile influenza lo scenario di cui stiamo parlando. 

Concludendo, il cambiamento necessario può avere successo per imprese, lavoratori e lavoratrici solo se fondato su una corretta lettura dei bisogni, che devono essere accompagnati da processi partecipati di costruzione di un’offerta che garantisca la qualità dei servizi forniti.

Il punto di vista di Margherita Rastiello

Curarsi per curare anche la società

Si sente spesso ancora associare la donna alla figura dell’angelo del focolare, e ancora più spesso “dietro un grande uomo c’è una grande donna”. 

La donna identificata quindi in associazione sempre con l’uomo o con la casa e con i figli che sono parte integrante della vita ma quando inizieremo a pensare alle donne come persone con sogni, progetti ambizioni forse vedremo cadere finalmente gli ultimi stereotipi.

Si può sognare di essere Samanta Cristoforetti o Margherita Hack e ancora sembra strano… Da poco c’è stato il film legato al personaggio Barbie che racchiude tanti significati.

La donna deve per prima cosa capire che ha un valore come essere a sè stante.

La cura principale che dobbiamo a noi donne è il riconoscimento del nostro valore da portare poi in famiglia con il nostro compagno e da insegnare ai nostri figli. 

Quando una donna si cura il suo benessere si riflette nell’intera società e specularmente, una donna che non si prende cura di sè stessa come è abituata a fare fa male all’intera società. 

Per questo motivo la società deve curasi delle donna, con asili nido magari aziendali, con consultori e centri d’ascolto nei quartieri. 

Se posso aggiungere una riflessione quasi autobiografica posso dire che DisabilmenteMamme, l’associazione di cui faccio parte è nata si per mancanza di conoscenza e bisogno di sostegno, quindi si può definire come un bisogno di cura.

La disabilità chiama la cura in molti casi e modi, però dobbiamo anche affrontare l’idea che dobbiamo riconoscere la nostra femminilità amarla sempre. 

Percorso non semplice. 

Deve nascere una consapevolezza generale che il nostro benessere è un bene che possiamo spendere verso gli altri. 

Margherita Rastiello
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