Ottobre è il mese di Halloween ma, da qualche anno a questa parte, è anche il mese della prevenzione del cancro al seno. Il Pinktober, o Ottobre Rosa, mette in guardia con tantissime iniziative le donne e gli uomini di tutto il mondo sull’esistenza di queste patologie, ricordandoci come affrontarle, combatterle e sconfiggerle.
Ragionando su quale potesse essere la perfetta ExtraWonder per il mese di ottobre, quindi, mi è venuta subito in mente Cinzia Sacchetti, che il cancro al seno lo combatte in punta di sciabola. È infatti la promotrice, in Italia, del Progetto Nastro Rosa, che adatta lo sport della scherma alla riabilitazione nei soggetti che abbiano subito interventi al seno e non solo. L’ho contattata per un’intervista e sono stata travolta dal suo entusiasmo.
Cos’è il Progetto Nastro Rosa?
Il Progetto Nastro Rosa è orientato alle donne (ma anche uomini, nonostante siano in minoranza), è indirizzato a chi ha avuto interventi in varie forme (mastectomie ma anche quadriectomie, interventi sul cavo ascellare e a carico dei linfonodi) per coadiuvare i fisioterapisti nella riabilitazione post intervento. In genere partiamo tra le tre settimane e un mese dall’intervento. È fondamentale l’indicazione del chirurgo o dell’oncologo, che valutano la singola situazione: in base all’importanza dell’intervento ci sono persone che possono partire prima o dopo con la riabilitazione. Il target sono queste persone.
Com’è nata l’idea di abbinare la scherma a questo tipo di riabilitazione?
Il merito dell’idea va riconosciuto alla Francia e in particolare alla dottoressa Dominique Hornus Dragne di Toulouse, anestesista e fiorettista master che, conoscendo sia la scherma che le esigenze di chi ha subito questo genere di interventi, ha deciso di approfondire il discorso e si è resa conto che i movimenti della sciabola sembravano fatti apposta per questo tipo di situazione. Di conseguenza, ha provato a contattare fisioterapisti e maestri di scherma che, collaborando, hanno notato i benefici che si ottengono con i movimenti base della sciabola, che sono movimenti di apertura che aiutano nella postura. Ci troviamo di fronte a persone che, un po’ per l’impatto fisico un po’ per quello psicologico, sono portate a “chiudere” il braccio verso il petto, per via delle cicatrici che tirano e della sensazione fastidiosa che danno. La sciabola favorisce tantissimo la riabilitazione in questi casi, anche a livello di recupero dei linfonodi mancanti. Da lì si è partiti con un progetto pilota che poi si è diffuso in tutta la Francia.
Ci troviamo di fronte a persone che, un po’ per l’impatto fisico un po’ per quello psicologico, sono portate a “chiudere” il braccio verso il petto, per via delle cicatrici che tirano e della sensazione fastidiosa che danno. La sciabola favorisce tantissimo la riabilitazione in questi casi
In Italia, invece, sei la principale artefice del Progetto.
In Italia, a dire il vero, stiamo partendo adesso, abbiamo organizzato due corsi per i Maestri di scherma e pian piano stiamo avviando le attività in tutta Italia, ad esempio Avellino ha già avviato un corso rivolto alle pazienti. Siamo all’inizio perché stiamo cercando di coinvolgere i medici e, soprattutto, fare degli studi in collaborazione con le università per dare una validità supportata da dati medici al nostro Progetto. La ricerca deve permetterci di coordinare il lavoro in tutta Italia per fare in modo di ottenere gli stessi risultati e lavorare con gli stessi standard. Questo ci permetterà di validare l’attività e fare in modo che i benefici che porta vengano riconosciuti a livello ufficiale. Per dare validità alla ricerca, la stessa deve poter essere ripetuta ovunque con gli stessi criteri e dare gli stessi risultati. Al momento non è facile e dobbiamo coinvolgere le università perché decidano di effettuare pubblicazioni in merito.
È un lavoro complesso, anche perché in Francia è stata completamente omessa la parte di ricerca, per cui è necessario ricostruirla da zero qui in Italia. Allo stesso tempo, questo ci agevola perché i ricercatori sono ben disposti a condurre indagini che ancora non sono state fatte altrove: non ci sono pubblicazioni, quindi le università hanno la possibilità di essere le prime a pubblicare determinati studi e questa per noi è una fortuna.
Nella tua esperienza, che tipo di reazione hai visto da parte delle pazienti all’inizio? Diffidenza o curiosità?
Normalmente le pazienti arrivano da noi perché l’attività è stata loro proposta e sono state incuriosite. Una cosa importante che abbiamo percepito è che ci troviamo di fronte a persone che, alla notizia del carcinoma, cadono in un momento di profonda difficoltà: è di fatto uno shock vero e proprio. Ma una delle cose positive è che dopo l’intervento, appena vengono offerte loro delle possibilità, le pazienti le vedono come una vera e propria rinascita. Quando arriva la proposta della scherma alcune ne rimangono molto colpite, sentirsi in grado di poter fare questo tipo di sport è un’iniezione di fiducia che è fondamentale nel momento della vita che stanno attraversando. Pertanto quando arrivano da noi sono già pazienti che hanno accettato l’idea di fare scherma, non vivono la situazione come un obbligo o un impegno che devono portare a termine per forza, come può esserlo una fisioterapia classica. Ci troviamo a lavorare, quindi, con persone già propositive e ben disposte. Da noi arrivano pazienti che hanno un passato sportivo consolidato alle spalle ma, in molti casi, anche persone che non hanno mai praticato un’attività sportiva prima: di conseguenza inizialmente sono curiose ma col tempo si entusiasmano e creano gruppo tra di loro. Noi evitiamo di parlare della patologia, in modo da ottenere un riscontro positivo sia a livello psicologico che fisico, sotto tutti i piani.
Ci troviamo di fronte persone che, alla notizia del carcinoma, cadono in un momento di profonda difficoltà: è di fatto uno shock vero e proprio. Ma una delle cose positive è che dopo l’intervento, appena vengono offerte loro delle possibilità, le pazienti le vedono come una vera e propria rinascita.
La componente psicologica viaggia di pari passo con quella fisica, mi sbaglio?
Viaggiano assolutamente insieme: il fatto di praticare lo sport dà un grande beneficio già in condizioni normali. Ma se ci fermiamo a considerare che queste persone hanno subito un intervento per loro emotivamente molto pesante, ha un impatto ancora maggiore. Noi spesso tendiamo a sottovalutarlo, ma anche l’aspetto della ricostruzione è molto invasivo. La prima sensazione, quando si subisce questa diagnosi e tutto quello che ne consegue, è di sentirsi malato: d’altra parte viene rimosso un pezzo importante, in particolare nella psicologia della donna. È un carico emotivo enorme e il fatto di uscire dallo studio fisioterapico ed entrare in una palestra sportiva è un vero e proprio ritorno alla vita. Inoltre permette di far lavorare insieme persone che sono a mesi o anni di distanza dall’intervento con persone che sono state appena operate: per queste ultime è uno stimolo, uno sguardo al futuro. Il problema grande è quando ne perdi qualcuna lungo il percorso: lì l’impatto è su tutto il gruppo. In generale comunque il riscontro è sempre sul positivo.
Quanto conta l’aspetto empatico in questo tipo di lavoro?
Moltissimo. Il Maestro di scherma ha un ruolo semplice dal punto di vista dell’esecuzione dei movimenti perché comunque in questo contesto non lavora con atlete che mirano alle gare, il movimento tecnico a cui tendere è il migliore compatibilmente con la situazione fisica di partenza. Ci vuole poi fantasia per coinvolgere e divertire le atlete/pazienti. Quello che è molto importante però è mantenere l’equilibrio psicologico: essere empatico ma non troppo, non porre troppe domande e allo stesso tempo lasciarle libere di sfogarsi ma senza esagerare perché il clima non si faccia troppo pesante, riuscire a trasformare l’aria che tira di volta in volta per farle sorridere. È un lavoro stimolante e gratificante, molto bello ma devi prestare quasi più attenzione a queste dinamiche rispetto alla parte pratica.
La scherma sportiva quasi passa in secondo piano, insomma?
Come attenzione, sicuramente sì. Devi fare attenzione alla postura e a che il movimento venga eseguito correttamente sulla base dell’obiettivo fisico che devono raggiungere. Gli equilibri psicologici di gruppo sono invece fondamentali: bisogna guardare sempre il volto per capire se stanno sforzando eccessivamente, comprenderne le emozioni e mantenere sempre in equilibrio le sensazioni che si manifestano durante l’allenamento. Questa è la cosa più difficile, in effetti.
Sei anche Maestro di scherma sportiva, è difficile porsi in questa doppia ottica, in questi due approcci così diversi?
Il mio trascorso è legato anche all’agonismo e, come in tutte le professioni, credo sia questione anche di attitudine personale. Una persona che si avvicina a questo Progetto deve essere qualcuno che è empatico già di suo, ma non troppo perché non bisogna farsi coinvolgere eccessivamente e rischiare il burnout. Bisogna capire che stai lavorando per loro, ancora di più di come è nella scherma sportiva: in questo Progetto è a maggior ragione così. Si può imparare ma, se parti con l’attitudine giusta, sei già sulla buona strada. Questo tipo di attività deve essere portato avanti da persone che riescono a capire le finalità del progetto e non lo interpretano come un “sostentamento economico” per l’agonismo perché il guadagno non è il fine ultimo, in questo caso. Certo, la componente sociale del Progetto Nastro Rosa può fare da traino nei confronti degli sponsor, può dare più visibilità ma l’obiettivo ultimo è la salute: le donne che arrivano devono poter essere accolte, l’attività deve essere alla portata di chiunque.
Sei Maestro di scherma, dirigente, “riabilitatrice” col progetto nastro rosa, tanti aspetti diversi: in che modo tutti questi aspetti diversi hanno contribuito ad arricchirti come persona?
È proprio lo stesso processo che è alla base della creazione di una persona, secondo me: tutte queste esperienze arrivano gradualmente, un po’ come accade nella crescita di un bambino. Tutte le esperienze che fai vanno a incidere sulla persona che diventerai e, per me, è stato un po’ così: tutte queste situazioni mi hanno trasformato moltissimo. Ho iniziato la scherma da adolescente come atleta, poi ho iniziato a insegnare ai ragazzini, interfacciandomi con loro e con i genitori, poi la gestione della società mi ha introdotto nella dirigenza. Tutto questo ti dà una visione sul mondo molto più interessante, soprattutto l’aspetto dirigenziale, che ti permette di metterti nell’ottica di chi è chiamato a gestire, di superare la visione personale per acquisirne una più generale. Ti permette di comprendere che non è sempre semplice e che ogni decisione è ponderata e valutata, anche sulla base di elementi che magari non conosciamo. La parte dirigenziale mi ha spinta quindi a provare a capire anche le cose che magari non sono visibili di primo acchito, mi ha insegnato a pormi nei panni degli altri e mi ha dato uno spirito critico diverso rispetto al passato. Un dirigente è chiamato a vedere non solo il suo punto di vista ma anche quello di tutti gli altri, è un lavoro complesso.
Per quanto riguarda la parte fisioterapica, mi ha fatto capire come sia importante “semplicemente” stare bene, la forza che dimostrano le mie atlete mi ha insegnato a rimettere tutto in prospettiva. Personalmente, arrivo già dal volontariato con i rifugiati, quindi avevo già una mentalità aperta al sociale. Il lavoro col Progetto Nastro Rosa mi ha permesso di arricchirmi molto. Tutti questi aspetti sono diversi ma tutti collegati.
Tutte le esperienze che fai vanno a incidere sulla persona che diventerai e, per me, è stato un po’ così: tutte queste situazioni mi hanno trasformato moltissimo.
L’esperienza con il Progetto Nastro Rosa ti è stata utile anche in altri aspetti della tua vita al di là del progetto in sé?
Sicuramente. Purtroppo mia madre era morta di cancro, quindi avevo già un’esperienza personale diretta con queste patologie. Quando però mi è stato proposto il Progetto Nastro Rosa la prima reazione è stata “sarò all’altezza?” Ero entusiasta ma timorosa allo stesso tempo, l’idea di farmi carico di persone che vivono una sofferenza mi faceva sentire insicura, avevo paura di non essere in grado. Poi l’esperienza si è rivelata positiva, mi ha dato maggiore sicurezza in me stessa, il riuscire a farle stare bene mi ha dato fiducia. Dall’altra parte mi ha spinta a vivere con maggiore consapevolezza i controlli sulla salute, proprio perché quotidianamente vedo situazioni di ogni tipo. Tutto questo ti arricchisce davvero tanto.
Nel Progetto Nastro Rosa non lavorano solo maestri di scherma ma convivono tante professionalità diverse: quanto conta il lavoro di squadra per la riuscita del progetto? E che rapporto si crea all’interno del gruppo tra professionisti diversi?
Sicuramente la presa in carico coinvolge molte differenti realtà, a volte addirittura in contrasto tra loro. Per presa in carico si intende che, quando un paziente entra in ospedale, c’è prima di tutto la parte diagnostica, poi l’oncologo, poi il chirurgo, poi il fisioterapista. Il soggetto, quindi, si interfaccia con una serie di persone diverse. È fin da subito un lavoro di team, quindi. Nella mia esperienza in Svizzera, ad esempio, lavoro tutti in giorni in tandem con una fisioterapista, si tratta di un lavoro totalmente in sincrono. Spesso è presente anche la psico-oncologa, in costante contatto con la fisioterapista, che ci dà indicazioni sulla persona nello specifico e su come può influire sulle dinamiche del gruppo. Anche la relazione col medico è fondamentale, perché tiene traccia dell’andamento della paziente, dei miglioramenti che ottiene o dei peggioramenti che, purtroppo, delle volte capitano e possono portare a nuovi interventi.
A che punto siamo? In Italia in che fase ci troviamo?
In questo momento abbiamo lavorato sulla formazione dei Maestri e sulla stesura di un protocollo dell’attività. Siamo inoltre in contatto con la facoltà di psicologia di Cagliari, che ha fatto partire un lavoro di raccolta dati e successiva pubblicazione. Il problema che abbiamo adesso è quello di tentare di coinvolgere le facoltà di medicina per poter raccogliere i dati medici e raggiungere le pazienti. Il Covid-19 ha sicuramente rallentato l’avvio del progetto ma adesso, con il normalizzarsi della situazione, speriamo di partire definitivamente in tutta Italia.
Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione per il cancro al seno: sono previste iniziative particolari anche per quanto riguarda il Progetto Nastro Rosa?
Per il momento purtroppo no, proprio in virtù della situazione che tutti viviamo. Il Covid-19 non ha certo aiutato e, soprattutto, ha creato un grande problema di incremento di interventi al seno perché la prevenzione e la diagnostica sono rimaste di fatto bloccate molto a lungo e pazienti che in un primo momento avrebbero potuto risolvere più facilmente sono state costrette all’intervento. La situazione si è molto esacerbata.
The Next Step: il prossimo passo sarà?
Per prima cosa faremo una raccolta di tutti coloro che hanno preso parte ai nostri corsi e realizzerò un flyer del progetto che ogni società di scherma potrà utilizzare, in modo da dare vita ad un lavoro uniforme. In progetto c’è poi un sito o una pagina dedicata al Progetto Nastro Rosa per tenere traccia di tutto. Poi finalmente coinvolgeremo anche la facoltà di scienze motorie di Cagliari e avremo bisogno anche di dipartimenti di fisioterapia e di medicina. Una volta che avremo gli studi potremo davvero partire con la pratica. La mia visione della cosa è poter fare un incontro all’anno radunando tutte le donne che hanno partecipato ai corsi in tutta Italia in un mega ritrovo, magari proprio durante l’Ottobre Rosa.
La mia visione della cosa è poter fare un incontro all’anno radunando tutte le donne che hanno partecipato ai corsi in tutta Italia in un mega ritrovo, magari proprio durante l’Ottobre Rosa.
Noi siamo un po’ sognatrici… Un desiderio/sogno per il futuro?
C’è tanto da fare e, purtroppo, abbiamo di fatto perso due anni ma ora si riparte. Come dicevo prima, il mio sogno è che finalmente questo progetto venga conosciuto e attuato in più parti d’Italia, praticato il più possibile sul territorio. Che sia consolidato, che riesca a svilupparsi per durare e che possa portare ad eventi: che fornisca di fatto una possibilità in più alle persone colpite da questa patologia e allo stesso tempo dia il segnale che questa patologia esiste ma che si può continuare a vivere, si può reagire e si può tornare a una nuova vita con consapevolezze diverse.
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