Sono appena tornata da uno splendido viaggio che mi ha portato nel nord del Kenia, nella zona del lago Turkana, in una regione semiarida dove vivono alcune delle molte etnie che formano la popolazione keniota.

Vi voglio raccontare a caldo le mie emozioni durante questa immersione etnografica in un mondo incredibile ai limiti della vivibilità, dove il cambiamento climatico è già una realtà che si tocca con mano.

Da Nairobi  a Marsabit

Nairobi ci accoglie di notte quando la vita si ferma e tutto appare tranquillo, ma la mattina uscire dalla città per dirigerci verso nord è un’impresa non da poco in mezzo ad un traffico caotico e rumoroso. Usciti dalla metropoli però la strada scorre tra cittadine e villaggi vivaci e colorati, tra coltivazioni e piantagioni rigogliose che sfornano frutta e verdura messa in bella mostra in enormi bancarelle ai bordi della strada. Attraversiamo la linea dell’equatore e ci dirigiamo al nostro primo punto di sosta nella marcia di avvicinamento al Lago Turkana: il Samburu Park, una delle aree protette più impressionanti del paese sia per la quantità di fauna che per i paesaggi incredibili.

Ci arriviamo nel primo pomeriggio e così ci godiamo un safari fino al tramonto che ci permette di vedere una grande varietà di animali: dalle giraffe reticolate agli elefanti, ogni tipo di gazzella, orici, impala e waterbuck, scimmie, coccodrilli, zebre …. Ho fatto altri safari in Africa ,ma ogni volta lo stupore e l’emozione degli avvistamenti sono incredibili!

La mattina dopo, prima di ripartire, ci permettiamo un altro giro all’alba e siamo premiati dall’avvistamento di un bel gruppo di leoni veramente vicini e da un leopardo sdraiato su un ramo. Restiamo ad ammirarli emozionati e senza parole. Non so perché ma l’avvistamento di felini è sempre più coinvolgente dell’avvistamento di qualsiasi altro animale.

Incontri al villaggio di Etnia Samburu
Etnia Samburu

Usciti dal parco riprendiamo la strada per deviare poco dopo su una strada sterrata che ci porta ad un villaggio dell’etnia Samburu, gruppo dedito all’allevamento di capre, pecore e dromedari, strettamente imparentati con i Masai.

Il villaggio è composto da un cerchio di capanne basse e di forma ovale, circondate da un reticolato di rami di acacie spinosi per tenere lontani gli animali predatori. Gli uomini sono alti e slanciati e portano mantelli gialli, mentre le donne indossano caratteristiche collane di perline colorate.

Donna con ornamenti tipici dell'etnia Samburu
Donna di etnia Samburu

Sono accoglienti e disponibili a mostrarci le loro abitazioni, le danze, gli oggetti artigianali.

C’è un numero di bambini impressionante che ci accompagna nella visita al villaggio facendoci da corteo. Purtroppo non possiamo comunicare con loro se non tramite un interprete, ma riusciamo comunque a renderci conto del livello di vita elementare al limite della sopravvivenza che conducono e che ha dell’incredibile.

Proseguiamo verso nord mentre il paesaggio cambia facendosi sempre più secco e arido fino alla cittadina di Marsabit dove pernottiamo.

Deserti

Da qui inizia la strada sterrata che ci porta ad attraversare il deserto di Kasiut, un’area semidesertica dove l’unica vegetazione sono cespugli di acacie spinose e dove vivono i semi-nomadi dell’etnia Rendille.

Ornamenti delle donne dell'etnie Rendille
Donne di etnia Rendille

Visitiamo uno dei loro villaggi costituito da capanne circolari di forma rotonda, ricoperte di stuoie e pelli. Anche loro sono dediti all’allevamento dei cammelli e normalmente si spostano a seconda di dove possono nutrire gli animali. In realtà scopriamo che non hanno quasi più animali, morti a causa della siccità che da quattro anni affligge questi luoghi, per cui sono diventati stanziali. Anche qui le donne portano collari di perline molto vistosi e ornamenti sul capo e anche qui ci accolgono sorridenti e decine di bambini ci accompagnano nella visita.

Donne dell'etnie Rendille durante la danza per la pioggia
Donne dell’etnia Rendille

La vita, già ai limiti della sopravvivenz,a è ora aggravata dalla crisi dell’acqua che, ci spiegano, gli viene portata con dei camion, ma devono pagarla e, senza animali loro unica fonte di sostentamento, spesso non riescono ad averla.

Ci mostrano una danza per la pioggia che le donne ormai fanno quotidianamente, mentre i bambini a piedi nudi nonostante i sassi giocano con un pallone bucato.  E’ sorprendente la gentilezza e l’allegria con cui ci hanno accolto nonostante le misere condizioni in cui vivono, e noi che ci lamentiamo per nulla! Lasciamo un po’ di denaro per l’acquisto dell’acqua e ripartiamo pieni di sensi di colpa.

Ora ci aspetta la pista che attraversa il deserto di Chalbi, un deserto piatto di sabbia compatta con forti residui salati. La pista è piuttosto sconnessa e si balla parecchio, inoltre il vento solleva nuvole di sabbia che ci costringono a tenere chiusi i finestrini. Lungo la pista un numero incredibile carcasse di dromedari  testimonia come il cambiamento climatico stia seriamente minando la sopravvivenza di questi popoli.

Ci spiegano che non sono morti per la sete, i dromedari hanno  un’autonomia dall’acqua anche di quaranta giorni, ma per la fame poiché il fatto che non piova da almeno quattro anni ha fatto si che non crescesse neppure quel poco di vegetazione necessaria a sfamarli.

Facciamo una pausa per pranzare nella piccola oasi di Kalacha dove c’è una piccola pozza d’acqua a cui si sta abbeverando un branco di dromedari. Ci sono alcuni ragazzini con un gregge di capre che ci osservano mentre consumiamo il nostro pranzo tanto da farci sentire in colpa e decidere di lasciare tutto a loro.

Fauna avicola sulle sponde del lago Turkana
Lago Turkana

Attraversato il piccolo insediamento di North Horr e la cittadina di Gas raggiungiamo la nostra meta, il Lago Turkana (o Rodolfo), il più grande bacino permanente in luogo arido con i suoi circa 6500 km quadrati  e anche il più grande lago alcalino del mondo.  E’ un bacino chiuso, tutta l’acqua che arriva dai tre immissari evapora per effetto delle alte temperature.  Attraversiamo un tratto di distese desertiche sassose e arriviamo a Loiyangalani, l’unica cittadina, se così si può chiamare, vicina al lago  dove alloggeremo.

Il Lago Turkana

Attorno al Turkana vivono numerose etnie che traggono dallo specchio d’acqua molto del loro sostentamento in quest’area praticamente deserta. Percorriamo un tratto della riva ammirando il paesaggio e i gruppi di fenicotteri rosa, cormorani e pellicani che ne popolano le rive. Poi spostandoci un po’ verso l’interno andiamo a visitare un villaggio dell’etnia Turkana.

Qui le case sono tonde capanne di paglia più piccole di quelle rendille. Sono tradizionalmente pastori anche se recentemente si dedicano anche alla pesca, credono negli spiriti degli antenati e sono poligami. Anche qui le donne sono facilmente riconoscibili per le collane che indossano e gli orecchini a foglia. Le collane sono più o meno grandi a seconda della ricchezza e dello stato civile, le sposate hanno un cerchio di metallo oltre alle collane di perline. Sono socievoli e allegre e danzano per noi insieme ai pochi uomini che nel cerchio delle donne facendo alti salti in alto. Il villaggio è in mezzo alla piana arida sotto un sole cocente, senza nessun albero o cespuglio e ci chiediamo come possano resistere tenendo conto che l’acqua è razionata e pochissima. Anche qui decine di bambini scalzi e sorridenti ci circondano e ci accompagnano nella visita.

E’ tutto interessante e affascinante, ma ogni volta che ce ne andiamo siamo pieni di sensi di colpa chiedendoci quanto sia giusto che questi bambini non abbiano possibilità di scegliere il loro futuro, ma siano quasi obbligati a questa e quale sia il limite tra la conservazione di una cultura e il progresso.

Capanna tipica dell'etnia Gabbra
Etnia Gabbra

Con un’altra mezz’ora di strada arriviamo a Gas dove vive una comunità dell’etnia Gabbra anche loro dediti alla pastorizia e all’allevamento dei dromedari. Qui sono un po’ più fortunati perché poco lontano c’è una piccola oasi con una fonte d’acqua . Il capo villaggio ci ospita nella sua casa che stranamente è in muratura e, dopo averci offerto il chai, un misto di te e latte, ci serve il pranzo a base di carne di capra e riso. Poi facciamo un giro per il villaggio composto di grandi capanne rotonde coperte di tessuti colorati, qui la gente è meno socievole e rimane nelle capanne mentre girando arriviamo alla fonte dove si sta abbeverando un gruppo di cammelli e di capre.

Donne dell'etnia El Molo
Donna dell’etnia ElMolo

Concludiamo la visita alle etnie che abitano attorno al lago con una visita a un villaggio dell’etnia El Molo che si dedica principalmente alla pesca e che è una delle etnie meno numerose del Kenia . Il villaggio è sulla riva del lago e come sempre le capanne sono di paglia, l’unica differenza sono le  distese di pesci messi a seccare. Le donne portano collanine meno vistose  e non sembrano molto interessate alla nostra presenza, cosa che invece interessa allo stuolo di bambini che ci segue. Sulla riva le imbarcazioni usate per la pesca, praticamente delle zattere fatte di tre o quattro tronchi legati tra di loro, con cui si muovono sul lago. Non mi sembrano così sicure soprattutto dopo che ci hanno confermato la presenza di coccodrilli nel lago! Una delle bambine che ci segue sta succhiando qualcosa come un leccalecca, guardo meglio e mi rendo conto che si tratta di un pezzo di lisca di pesce….non so neppure come commentare!

“Quanto pesa una lacrima? Dipende: la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra”. Gianni Rodari

Nakuru

Dopo i giorni trascorsi sul lago Turkana ricominciamo a scendere verso sud. La strada sterrata costeggia per un po’ il lago poi percorre deserti di sassi dove incontriamo ogni tanto villaggi fino ad attraversare il più grande parco eolico dell’Africa e poi la cittadina di South Horr abitata prevalentemente da Samburu.

Da qui la strada si fa orribile, ma la vegetazione aumenta, gli alberi si infittiscono ed è tutto verdeggiante. Sembra un altro mondo. I villaggi si susseguono e incrociamo greggi di pecore e cammelli. La strada è veramente brutta e scassata, ma il panorama merita. Peccato non poterci fermare per qualche foto perché questa è una zona pericolosa a causa di scontri tra Samburu e Turkana per furti di bestiame. In lontananza la catena del monte Nyro e addirittura boschi di pini ed eucalipti.

Donna di etnia Pokot
Donna di etnia Pokot

Mentre ci si apre una bella veduta sulla Rift Valley arriviamo a Maralal dove pernottiamo. Siamo all’interno di un parco e dalla camera si avvistano impala e gazzelle, mentre gruppi di babbuini ci guardano curiosi. La mattina dopo ripartiamo attraversando la Mugie Conservancy, un’area protetta che costeggia la strada principale. Poi prendiamo una strada sterrata per raggiungere un altro villaggio.

Prima però ci fermiamo sul bordo della strada dove vediamo un gruppo di cammelli e una capanna di latta con l’insegna un po’ pretenziosa di “hotel”. In realtà è un posto dove è possibile fermarsi per un te. Entriamo e una signora dell’etnia Pokot  ci offre una tazza di te e una specie di piada di mais. E’ una bella signora che si muove con un’eleganza quasi fuori luogo in questa topaia!

Ripresa la strada e superato il lago Baringo ci inoltriamo nel bush con la macchina e poi a piedi per raggiungere il villaggio dell’etnia pokot, forse uno dei più poveri tra quelli che abbiamo visitato. Ci accolgono alcune donne con i collari circolari fatte di paglia e perline e un gruppo di anziani con lance e bastoni. Gli uomini sono via con le bestie e torneranno solo a sera. Le scene si ripetono: ci guardiamo un po’ intorno, le donne ci fanno vedere qualche danza e i tanti bambini ci seguono scalzi, alcuni con i fratelli più piccoli sulla schiena, sporchi e con i segni visibili della dieta scarsa a a base di latte e carne secca di capra. E’ sempre più pesante lasciarli così sapendo che la loro vita potrà solo peggiorare viste le condizioni climatiche e che è fin troppo facile, venire, guardarli e poi tornare alle nostre vite comode.

Ripresa la strada asfaltata raggiungiamo Nakuru dove pernottiamo e dove l’indomani ci godiamo un ultimo safari nel Parco Nakuru prima di tornare a Nairobi. E’ un bel parco dai paesaggi spettacolari e ci regala forti emozioni per l’avvistamento di numerosi rinoceronti neri e bianchi, di una splendida famiglia di leoni e di molti altri animali

Leone del Parco Nakuru

Così finisce questo viaggio incredibile e molto intenso che ci ha coinvolto moltissimo anche emotivamente e che ci ha fatto scoprire una zona pochissimo conosciuta e molto diversa dal Kenia più turistico e che ci ha fatto toccare con mano ciò che il cambiamento climatico sta producendo a queste popolazioni .

Durante questo viaggio ho letto un libro di un’autrice che non conoscevo, Corinne Hofmann, dal titolo “Masai Bianca” in cui l’autrice racconta la sua esperienza personale. Durante una breve vacanza in Kenya si innamora perdutamente di un guerriero Samburu, Lketinga. Nonostante sia consapevole dell’enorme differenza culturale, tenta in ogni modo di coltivare un rapporto con lui. Si adatta ai costumi dell’etnia andando a vivere nel suo villaggio in una capanna. È l’unica europea che riesce a sopportare la vita selvaggia del bush, ma le differenze culturali continueranno ad emergere e rovineranno il rapporto fino al suo ritorno in svizzera con la figlia. Interessante soprattutto la descrizione della vita e delle abitudini dei Samburu e della difficoltà di comprensione delle culture reciproche.

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