La maternità risulta ancora fonte di diverse pratiche discriminatorie ed è ancora la causa principale dell’abbandono del lavoro da parte delle donne. Vero è che il contesto sociale di fatto non riesce a promuovere la conciliazione né a declinare il welfare in ottica di genere, tuttavia, la normativa, offre numerosi strumenti a tutela e sostegno della maternità e della paternità. 

Di seguito, alcune recenti pronunce che ce lo ricordano.

Il datore di lavoro deve provare di non aver avuto una condotta discriminatoria

Con la recente ordinanza n. 3361 del 3 febbraio 2023, la Corte di Cassazione ha affermato che il “presupposto della disciplina in tema di discriminazione è rappresentato dal fatto che la discriminazione viene realizzata attraverso atti che non sono intrinsecamente e dichiaratamente discriminatori; tali condotte neutre debbono essere collocate nel più ampio contesto delle concrete circostanze e onde verificare se il complesso degli elementi acquisiti risulta idoneo a sorreggere il ragionamento presuntivo sotto il profilo della precisione e concordanza (ma non anche della gravità) circa la esistenza di un possibile fattore di discriminazione nella scelta datoriale di non consentire la conversione del rapporto di apprendistato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.


Il caso da cui la decisione trae origine è quello di una dipendente apprendista di una banca, il cui contratto era stato risolto (unico tra 200 stipulati, tutti poi trasformati a tempo indeterminato) 17 mesi dopo la seconda gravidanza: la lavoratrice ha agito  per ottenere l’accertamento e la repressione della condotta datoriale, in quanto discriminatoria, in ragione del sesso della dipendente. Il rigetto della domanda da parte della Corte d’appello non ha superato il vaglio della Cassazione, che, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice in ottica correttamente tutelante, ha osservato che, alla luce della disciplina in materia, la dipendente deve provare unicamente di essere portatrice di un fattore di rischio tipizzato di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore, mentre il datore di lavoro deve provare circostanze che escludano univocamente la discriminazione.

Inoltre, la connessione, da ricostruirsi in via presuntiva, può essere dimostrata anche sulla base di dati statistici.
Per cui è il datore di lavoro a dover dimostrare – servendosi di circostanze inequivoche e concordanti – che la propria condotta non è discriminatoria. 

Discriminazione o scelta imprenditoriale?

Inoltre spetta ancora al datore l’onere – certamente per lieve – di provare che la propria decisione sia frutto di una scelta imprenditoriale (pur basata sulla valutazione delle capacità del prestatore di lavoro) e che non sia stata influenzata in alcun modo da eventi che riguardino il sesso, la razza, la religione, le opinioni politiche o sindacali oppure l’età o le condizioni di salute del lavoratore.

Ebbene, senza lasciarsi intimidire dalla tecnicità dell’argomento, la conclusione della Cassazione ci rammenta quanto sia frequente imbattersi in circostanze in cui -a volte neanche consapevolmente- si è vittime di discriminazioni.

Un anno fa, un’altra decisione aveva raccolto l’interesse degli operatori del settore: con decreto del 23 marzo 2022,  il Tribunale di Roma si era pronunciato sul ricorso proposto da due assistenti di volo, che avevano qualificato la condotta della neocostituita compagnia di volo discriminatoria in quanto, nell’ambito del piano di assunzione, non avrebbe preso in considerazione la loro candidatura, poiché in stato di gravidanza.

In caso di lavoratrice in gravidanza

La fattispecie della discriminazione della lavoratrice gestante costituisce una forma di discriminazione fondata sul genere e tutelata, nello specifico, dall’art. 25, comma 2-bis, del Codice delle Pari Opportunità che ritiene discriminatorio “ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”. 

Sebbene tale previsione potrebbe sembrare a prima vista quasi superflua, in quanto la gravidanza riguarda unicamente la donna, facendola automaticamente ricadere entro il perimetro della discriminazione di genere, la logica di tale norma è proprio quella di rafforzare ulteriormente l’ambito di operatività della disciplina antidiscriminatoria.

Molte sono le pronunce dei Tribunali italiani che ci rammentano che la tutela antidiscriminatoria è ampia e si estende, quindi, anche alla fase di accesso al lavoro, non diversamente dalla successiva fase di svolgimento del rapporto di lavoro, e può essere integrata dalla mancata assunzione, così come dalla mancata ammissione a procedure selettive. 

Come spesso accade per le questioni che hanno ad oggetto condotte discriminatorie, la decisioni giudiziarie risentono della relativa non organicità della normativa che regola questa fattispecie, la cui disciplina legislativa si è stratificata negli anni, anche in ragione della normativa europea che ne costituisce in buona parte l’architrave.

Peraltro, un adeguato accesso alla giustizia, possibile pure attraverso strumenti che non richiedono di adire le aule giudiziarie, consente una tutela effettiva.

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7 thoughts on “Ancora su ipotesi di discriminazione per maternità”

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