L’atto con cui l’uomo si determina secondo la propria legge: espressione della “libertà” positiva dell’uomo, e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione.

(Definizione da vocabolario)

Ogni essere umano si autodetermina nel tempo, con l’azione di scegliere, così si forma la sua strada capendo ciò che ama oppure no; perché anche saper dire di no è una scelta.

Se io prendo posizione allo stesso tempo mi prendo la responsabilità con tutto ciò che può significare. 

Cosa succede però quando un evento ti identifica prima ancora che tu stessa possa farlo? 

Ecco cosa fa la disabilità: ti identifica agli occhi degli altri; nella scuola, affrontando gli anni più delicati della tua formazione ed inizia lì una doppia lotta: da una parte è quella che facciamo tutti per crescere e, dall’altra, nello stesso tempo, per una persona disabile la “lotta specifica” è quella di farsi conoscere per ciò che si è e non per la patologia.

Anche perché la persona stessa deve capire prima chi é, è solo poi, cosa vuole dalla propria vita.

Anche quando si cominciano a formare i primi gruppi di amici dicendo la tua, ti autodetermini e ti identifichi. Sarà per gli studi che sto ancora portando avanti (sto per laurearmi in Scienze dell’Educazione), eppure sono straconvinta che noi ci “formiamo”, nel senso di migliorarci e modificarci, ogni giorno fino all’ultimo sebbene le nostre convinzioni più radicate potrebbero rimanere immutate.

Le donne, per anni, o dovrei dire per secoli, sono state identificate sempre tramite la controparte: i padri, i mariti, i figli ecc. Eravamo invisibili, o visibili in virtù dell’approvazione di qualcun altro.

Ecco, io dico che il lavoro dell’autodeterminazione è infinito come lo sono gli esseri umani .

Mi autodetermino nel momento in cui mi rispetto, mi riconosco in ciò che faccio, e non solo tramite una patologia, un matrimonio o un figlio.

Noi siamo molto più di tutto questo, perché abbiamo la possibilità e la responsabilità di migliorare la nostra vita.

Margherita Rastiello

Autodeterminazione 

È un concetto semplice, quanto complesso.

È indubbio che, quando nasciamo, non possiamo dirci del tutto autodeterminati poiché da neonati non esiste la finalità, la coscienza di sé pienamente attiva e sviluppata, quella cresce piano piano e grazie alle persone e all’ambiente che avremo intorno, e anche in base alla fortuna.

È fuori di questione, almeno per me (in quanto io, come donna e come persona) quanto sia stata fortunata a nascere da “questa parte di mondo”.

Sono nata in un paese (l’Italia) dove ho avuto molte possibilità: in primis di cura (medica) gratuita, vista la mia nascita precipitosa e la conseguente necessità di gestire una disabilità motoria permanente; in secondo luogo, sono stata fortunata perché ho potuto studiare, laurearmi, avere una casa, una famiglia e la possibilità di esprimere la mia opinione liberamente.

Ma c’è un però, un qualcosa che ha sempre pesato sulla mia condizione di donna e di persona con disabilità, per quanto riguarda l’autodeterminazione.
E non è la condizione fisica dovuta alla mia disabilità, anche se non posso negare che sul piatto della bilancia pesi, è molto.

Non è il fatto di essere una persona disabile che pesa, ma la società e la mentalità che la fanno pesare oltremodo. Per dirla con un concetto più chiaro e conciso: è la società, o la mentalità a essere disabilitante, non i nostri corpi e desideri.

Se nasci donna sai già che comunque dovrai lottare esplicitamente o implicitamente contro tutta una serie di stereotipi e ostacoli, se nasci donna e “disabile” la difficoltà non raddoppia, ma triplica, perché raramente si viene visti e accolti per quello che si è come persone.

La disabilità arriva prima e con un gran chiasso zittisce, spesso, tutto il resto.

La cosa positiva è che se si hanno obiettivi chiari e un carattere piuttosto cocciuto e resistente, si può arrivare ad “autodeterminarsi” senza troppe zavorre.

Non è facile, ma qui ci viene in aiuto lo spirito di adattamento e flessibilità, e di sopportazione che molte persone con disabilità posseggono ed esercitano.

Il mio percorso verso l’autodeterminazione

Io, da ragazza, volevo frequentare il liceo artistico e poi l’università, nessuno credeva che ce la potessi fare, o peggio, nessuno osava mettermi alla prova.

Alla fine ho concluso sia un percorso che l’altro, ma con la gran fatica addosso di dover dimostrare di essere “degna”, di essere “abbastanza”.

Lo stesso per quanto riguarda le mia relazioni affettive o il mio essere mamma, le ho vissute sempre con quel senso di inadeguatezza, che poi sono certa, accompagna tante donne e non solo chi ha una disabilità.

Ho passato talmente tanto tempo a rispondere e a ripetere ”io ce la faccio, io posso farcela” che, per certi versi, ogni tanto credevo di non farcela più davvero. Il pregiudizio della gente confondeva il mio giudizio sulle mie capacità, mi faceva dubitare di me e delle mie scelte.

Poi ho capito che devo seguire il mio sentire, il mio istinto, le mie paure e, perché no, accettare anche qualche fallimento, qualche intoppo, oppure abbandonare un percorso in favore di un altro, che sia di studio, di lavoro, o di altro.

L’autodeterminazione, in questo senso, è una conquista sempre in divenire, un continuo salire e scendere gradini, certo se non avessimo sulle spalle anni e anni di preconcetti abilisti, che ci vedono come persona sfortunate e da dover assistere, sarebbe molto più facile raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo.

Anche perché non c’è una strada “giusta” o “sbagliata” in senso assoluto, ma c’è la “tua” strada, il “tuo” percorso. E ognuna di noi dovrebbe essere libera di crearsi l’itinerario come meglio crede, da sola, oppure insieme ad altre persone, tenendo conto della propria condizione, oppure no, anche perché non siamo tutti uguali e anche nella stessa condizione di disabilità o patologia, ogni persona è unica e merita di potersi autodeterminare.

Samanta Crespi

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