Quando parliamo di invasioni di alieni, immaginiamo subito un film di fantascienza. Eppure, per specie aliena si intende una qualsiasi specie, vegetale o animale, che, spostandosi, si trova in un territorio diverso dall’areale di origine. 

Quando questi spostamenti non avvengono in modo naturale, ma sono gli esseri umani a spostarle, volontariamente o involontariamente, queste specie possono rivelarsi dannose per l’equilibrio degli ecosistemi, la sopravvivenza delle specie autoctone e per la biodiversità. Gli alieni, proprio come nei film di fantascienza, trovano spesso condizioni più favorevoli nei nuovi ecosistemi (ad esempio, non hanno predatori, o comunque i loro predatori sono in numero minore), e si diffondono facilmente.

Sono specie invasive la nutria, lo scioiattolo grigio, la cimice asiatica, la zanzara tigre.

Si parla molto in questi giorni di specie invasive, con la comparsa, sebbene non così recente, del granchio blu sulle nostre coste. Animali che non hanno colpe, se non quelle di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, rischiano di essere sterminati per un errore umano. Oppure, altri animali che vivevano indisturbati nel proprio ambiente originario rischiano di essere annientati dall’invasore.

Dagli animali abbiamo davvero tanto da imparare su come l’essere umano non si stia preoccupando a dovere del suo impatto sul Pianeta.

La caratteristica che accomuna gli animali che stiamo per presentare in questo articolo è l’adattamento: seppur lontani dalle loro origini, riescono ad adattarsi ad un contesto nuovo, caratterizzato da temperature più elevate, a cambiare la propria dieta pur di sopravvivere e persino ad accettare di convivere con gli esseri umani.

Il granchio blu

“Spacca tutto e fa disastri”. Così il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, pochi giorni fa ha riassunto il problema dell’invasione del granchio blu, che sta proliferando tra Veneto ed Emilia- Romagna. Si tratta di una specie aliena, Il Callinectes sapidus, che già da qualche anno mina la biodiversità del mar Mediterraneo e dal 2021 ha iniziato a rappresentare una vera minaccia.

Si ciba infatti di crostacei e pesci, in particolare uova e pesci appena nati, ma anche ostriche, cozze, molluschi, piante. Come se non bastasse, è in grado di distruggere le reti dei pescatori per cibarsi del pescato al loro interno. Non a caso, si è guadagnato il soprannome di “killer dei mari”.

Il granchio blu deve il nome proprio al colore particolare delle sue chele. Si tratta di una specie originaria delle coste atlantiche dell’America, che non viaggia certo in prima classe in aereo, ma in nave sì. Infatti, è arrivato fino in Italia attraverso le navi cargo, che usano l’acqua di mare come zavorra per stabilizzare lo scafo, e la rilasciano una volta arrivate in porto. Giunto in Italia con questo particolare passaggio, ha trovato subito un clima ideale: infatti il granchio blu può resistere fino a 35 gradi, mentre i nostri mari sono sempre più caldi. A causa della siccità, di cui avevamo parlato anche in un precedente articolo, che causa la risalita del cuneo salino, ha avuto modo di espandere il suo bacino d’azione e avvicinarsi all’entroterra.

Infine, non aveva certo rivali. Né predatori. A causa della pesca intensiva, il mar mediterraneo è depauperato di risorse ittiche.

È interessante notare come l’emergenza, per cui sono stati stanziati già 2,9 milioni di euro per la regione Veneto, ha lasciato presto il posto alla farsa e a “soluzioni” nel breve periodo: mangiarlo. Una soluzione che però non fa che deviare l’attenzione rispetto ad un problema più grande, e più a lungo termine, di come arginare l’arrivo di specie aliene, non solo nei nostri mari, e rendere il trasporto navale più sostenibile.

Le meduse

Come per il granchio blu, sempre più meduse stanno comparendo nelle acque del Mediterraneo, dalla Spagna all’Italia. E anche in questo caso la loro proliferazione potrebbe essere influenzata dalla crisi climatica: le meduse si trovano bene in acque più calde, ma resistono persino in acque inquinate, povere di ossigeno, tanto da allungare le loro stagioni di riproduzione.

Inoltre, l’eccessivo sfruttamento di risorse ittiche causato dalla pesca intensiva riduce sia i predatori, sia la competizione per il cibo: c’è quindi molto più cibo a disposizione per le meduse, che possono proliferare indisturbate, compromettendo la biodiversità dei nostri mari.

Il parrocchetto

Avrete sicuramente notato questo piccolo pappagallo verde che ha invaso i parchi urbani di molte città europee.

Si trattava di esemplari destinati a essere venduti come animali di compagnia. Si ipotizza che alcuni di essi siano fuggiti, o più probabilmente siano stati liberati da chi se ne era stancato. Una volta liberati, i parrocchetti si sono adattati molto bene al clima sempre più caldo, e oggi si contano migliaia di esemplari, di cui 6mila solo a Roma.

Tra le conseguenze della loro proliferazione ci sono i danni agli orti, l’indebolimento del patrimonio arboreo su cui i parrocchetti fanno i nidi e la competizione con altre specie autoctone. I loro nidi possono diventare così pesanti da spezzare i rami su cui poggiano, compromettendo la salute della pianta ma anche la sicurezza dei cittadini.

Questa specie è ormai così diffusa che difficilmente potrà essere limitata, ma resta fondamentale non favorirne la proliferazione, ad esempio non alimentandoli.

I cittadini di Molfetta hanno promosso un progetto per censire i pappagalli e i loro nidi, in modo da stimare il loro numero effettivo e le aree di nidificazione, e conoscere meglio questo ospite con cui dovremo convivere.

Il leopardo: una storia di adattamento?

Immaginiamo che le creature selvagge, soprattutto i grandi carnivori, vivano principalmente nella natura incontaminata. Se però la natura incontaminata si riduce, sono sempre più i leopardi – ma anche altri felini, che si trasferiscono dentro e attorno ai villaggi abitati.

Ciò avviene in centri abitati con densità abitative elevate, come l’India. Riccamente popolata, l’India ospita 1,4 miliardi di persone, quasi un quarto delle specie carnivore del pianeta, inclusa metà di tutte le tigri al mondo,  l’unica popolazione in vita di leoni asiatici e quasi 13.000 leopardi. Proprio come le decine di milioni di abitanti dell’India rurale che vedono foreste e campi convertirsi in miniere, fabbriche, dighe e superstrade, gli animali devono adattarsi per sopravvivere in un mondo sempre più irto di ostacoli.

I felidi rifiutano di essere confinati a quell’esigua porzione del territorio indiano designato come protetto, ma hanno bisogno di vagabondare anche per centinaia di chilometri alla ricerca di un partner. Solo la metropoli di Mumbai, 20 milioni di abitanti, ospita una cinquantina di leopardi nelle aree verdi circostanti.

Nonostante l’immaginario comune veda i grandi felidi come assassini assetati di sangue, in realtà la principale minaccia sono proprio gli umani. Gli animali non devono provocare danni da far sì che la gente reagisca.

Secondo la Wildlife Protection Society of India, tra il 1994 e il 2021, i cacciatori di frodo in cerca di pelli, ossa o artigli (per cui esiste un mercato nero) e gli abitanti dei villaggi arrabbiati per la perdita di bestiame hanno ucciso quasi 5200 leopardi in tutta la nazione.

Nel 1972 il governo indiano ha proibito l’uccisione di animali in pericolo di estinzione. Tuttavia, non era proibito spostarli. Quando i dipartimenti forestali hanno provato a rimuovere i leopardi dalle aree abitate, per ridurre i conflitti con gli esseri umani, sono in realtà aumentati i problemi. I leopardi, separati a forza dalle loro case e famiglie, liberati in terreni non familiari, stressati dallo spostamento e spesati, avevano iniziato ad attaccare esseri umani.

Il problema è che i leopardi venivano trasferiti non perché causassero problemi, ma semplicemente per essere stati avvistati. A chiedere la rimozione dei leopardi non erano gli abitanti delle baraccopoli (la gente che veniva attaccata con maggior frequenza): erano i ricchi residenti dei grattacieli vicino alla riserva naturale, che andavano nel panico se vedevano un leopardo anche solo in una videocamera di sorveglianza.

La narrazione comune vede i grandi carnivori come predatori che faranno del male alle persone o al bestiame. Ma la realtà è ben diversa: ripulendo il paesaggio da tutte le minacce che incontravano, i coloni europei hanno quasi annientato lupi e puma. Quando i colonizzatori britannici arrivarono in India, spararono a decine di migliaia di tigri e leopardi e sterminarono il ghepardo.

Quando un animale selvatico attacca un umano, bisogna sempre chiedersi quale sia il motivo, perché c’è un motivo. Possiamo dire lo stesso quando un uomo attacca un animale selvatico?

Queste storie sono esempi di adattamento degli animali selvatici a un clima che cambia e all’espansione delle città rispetto alle foreste. Gli esseri umani saranno in grado di adattarsi?

Bisognerebbe ripensare il modo in cui gli esseri umani occupano il proprio spazio nella natura. Dovremmo imparare a convivere con tutte le specie che, come noi, popolano la Terra e si adattano, in un modo o nell’altro, a condizioni che non hanno creato loro. E non scaricare la responsabilità sulla specie di turno.

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